Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha ingaggiato una battaglia per la legalità. Ma la legalità non è solo la lotta agli immigrati irregolari
Da quando Matteo Salvini è energicamente appollaiato sulla poltrona del Ministero dell’Interno abbiamo assistito alla costruzione di una narrazione all’insegna del binomio “legge e ordine” che ha avuto come obiettivo principale quello di inculcare nell’opinione pubblica il convincimento di un’inversione di tendenza rispetto al presunto lassismo degli anni precedenti.
La rappresentazione è stata assistita da non pochi provvedimenti amministrativi discutibili e da alcune sortite pubbliche del titolare del Ministero che hanno disvelato una strategia precisa agli occhi di chi ne ha saputo cogliere i tratti distintivi.
Il percorso, come è noto, ha preso le mosse dalla lotta senza quartiere agli immigrati irregolari (legittimata dall’opinabile decisione della magistratura), è proseguito con alcune sparate ad effetto contro le autorità giurisdizionali internazionali che hanno riaffermato l’inderogabilità della tutela dei diritti fondamentali (accuse alla Corte EDU), si è snodato lungo le numerose battute (a volte acide a volte stucchevolmente ironiche) che hanno segnato la fredda distanza nei confronti di episodi criminali che hanno visto emergere la responsabilità di alcune mele marce fra le forze dell’ordine (caso Cucchi), ha raggiunto la sua vetta con lo sgombero della Baobab a Roma (e con l’annuncio della prosecuzione dell’atteggiamento d’intolleranza verso qualsiasi zona franca “senza Stato e legalità”).
La speranza che lo Stato possa davvero recuperare l’autorevolezza che i cittadini reclamano, tuttavia, passa necessariamente tanto dalla dimostrazione concreta che l’azione dell’Autorità pubblica non subisca i condizionamenti di un pregiudizio ideologico e non miri a strizzare l’occhio a frange d’elettori “fuori legge” (che potrebbero tramutare il consenso sin qui riservato alle forze di Governo in aperto dissenso), quanto dalla manifesta volontà di volere affrontare sfide un po' più complesse sul piano dell’ordine pubblico tali da accettare il rischio anche di qualche insuccesso sacrificato sull’altare, però, di una buona causa.
Non potrà fare a meno, pertanto, il Ministro dell’Interno d'affrontare con la medesima fermezza una pluralità di questioni relative ad altri sgomberi che necessitano di essere eseguiti con la medesima solerzia (CasaPound per primo), alla sicurezza urbana di vaste aree periferiche all’interno delle quali l’incidenza dell’azione delle forze dell’ordine non è ancora sufficiente, al cancro della ndrangheta e della camorra che hanno oramai spostato al nord quella che Sciascia definiva “la linea della Palma”, alla delinquenza che alligna indisturbata fra molte tifoserie calcistiche, al livello di preparazione delle forze dell’ordine che troppe volte abbiamo visto indietreggiare (impreparate) dinanzi a frange di manifestanti violenti che avrebbero meritato una reazione appropriata e che di recente, invece, abbiamo visto calpestare i diritti di soggetti inoffensivi (non si sa ancora se con il beneplacito del Ministro).
Né dovrebbe mancare, all’interno di questa strategia più neutrale, qualche parola di solidarietà decisa, convinta e sincera nei confronti delle vittime di azioni criminali che hanno avuto per protagonisti uomini dello Stato.
Un cambio di paradigma insomma. Quello che farebbe la differenza fra uno Stato davvero “legge e ordine” e uno solo “chiacchiere e distintivo”.